UE dopo Brexit, e se il latino fosse il nuovo inglese?

Che cosa succede all’inglese come lingua ufficiale dell’Unione Europea da oggi, primo febbraio 2020? Fino alle 23,59 di ieri, l’inglese era la lingua parlata nell’UE da 72 milioni di persone considerando Regno Unito (66,6 milioni di abitanti), Irlanda (4,9 milioni) e mettendo nel conto pure la piccola Malta, 493mila abitanti che in realtà parlano il maltese.

Con lo scoccare delle lancette a mezzanotte, l’inglese è rimasta lingua parlata nell’UE da poco più di 5,3 milioni di persone. Meno, per dire, di quelle che parlano portoghese (10,2 milioni), greco (11 milioni circa) o bulgaro (7 milioni). Lasciando il primato ai 90 milioni che parlano tedesco fra Germania, Austria, Lussemburgo, Italia e Belgio. O ai locutori francesi, circa 70 milioni fra Francia, Belgio e Lussemburgo. Insomma, fra le 24 lingue ufficiali dell’Unione – che legalmente hanno tutte lo stesso peso – da stanotte, in termini almeno di numero di parlanti madre lingua, non è che l’inglese conti più di tanto.

Della questione si è interrogato nel 2016 il periodico culturale online Rivista Studio. Riprendendo quello che sottolineava  l’Economist alla vigilia del referendum sulla Brexit. Il periodico londinese prevedeva come si sarebbe arrivati al punto in cui, in un comunità che dopo l’uscita del Regno Unito conta circa 450 milioni di abitanti, l’inglese sarebbe rimasto come una sorta di esperanto per l’Unione Europea, anche se parlato qui ufficialmente da poco più di 5 milioni di persone.

Chissà se i francesi rivendicheranno per sé il ruolo di koiné, di lingua franca per i colloqui ufficiali, come ipotizzavano in un pesce di aprile alcuni giornali francesi qualche anno fa. Del resto, Bruxelles è città per lo più francofona. Non appare probabile, però: l’inglese, per comodità e per diffusione globale manterrà con ogni verosimiglianza la sua importanza nei colloqui ufficiali e nei documenti. 

Peraltro, l’inglese dell’Unione Europea è già una lingua molto strana. Si parla di “Euro English”, con tutta una serie di false friends mutuati dalle varie lingue dell’UE ed entrati ormai in uso: come “control”  per “controllare” usato al posto di “monitor”. O espressioni come “delay”, che in realtà vorrebbe dire “ritardo” al posto di “deadline” (deve suonare davvero paradossale all’orecchio di un madrelingua veder scambiare “scadenza” con “ritardo”). Una questione cui l’UE ha dedicato anche uno studio ufficiale “Misused English words and expressins in Eu publications” (Parole ed espressioni usate in modo sbagliato nelle pubblicazioni dell’Unione Europea) con un glossario piuttosto corposo di termini che nella burocrazia di Bruxelles sono errati all’orecchio di un suddito di Sua Maestà.

“Sarà dura per la sparuta compagine irlandese in Europa convincere le controparti più grandi come Francia e Germania ad apprezzare le sottigliezze linguistiche del vero inglese. Così  come i membri dell’Unione Europea troveranno più difficile ottenere visti per vivere nel Regno Unito dopo Brexit, riducendo le opportunità di imparare l’inglese dai madre lingua”, scriveva il periodico online Quartz.

Qualcuno ha pensato a una terza via: perché non pensare al Latino come lingua ufficiale e franca dell’Unione Europea, un po’ come avviene (avveniva?) per la Chiesa? Già lo scrittore Anthony Burgess, lo scrittore britannico autore di Arancia Meccanica, nel 1989 scriveva che la soluzione alla mancanza di una lingua europea non era l’Esperanto (la lingua artificiale inventata a fine Ottocento dal polacco Zamenhof) ma il Latino. Qualche tempo fa è stata persino lanciata una petizione su change.org. Con scarsi risultati, però: appena 1500 firme. Chissà se, adesso che Brexit è un fatto concreto, qualcuno non ci riprovi. E se metaforicamente, come nelle versioni che si facevano al liceo, Cesare “in Britanniam proficisci contendit”, si affretta a partire in direzione Britannia. O almeno in direzione Bruxelles.