La paura è un sentimento atavico. Tanto più la paura delle malattie che va a toccare, spesso complice l’ignoranza, le corde più intime e irrazionali dell’uomo, portando anche a comportamenti tutt’altro che commendevoli, come quelli cui assistiamo in questi giorni di psicosi da coronavirus, fra ristoranti cinesi in Italia che rimangono immotivatamente vuoti, fino ai neppure commentabili episodi di intolleranza verso gli asiatici di cui parlano le cronache di questi giorni.
Proprio in quanto paura che tocca profondamente la natura umana, la letteratura si è sempre occupata di malattie. Fin dall’origine. Da quando, nei primi versi dell’Iliade, Apollo, per l’ira contro Agamennone, scatena nell’accampamento dei greci “una feroce malattia”: “Prima colpì i muli e i cani veloci, poi scagliò contro gli uomini le frecce aguzze”. Con gli storici della medicina che hanno più volte analizzato questo “morbo acheo” che passa dagli animali all’uomo, formulando le più svariate ipotesi (si può leggere ad esempio il saggio di Mauro Di Napoli “La malattia e la morte raccontate dai grandi della letteratura”, Armando Editore).
Tucidide, qualche secolo dopo, racconta della peste che colpisce Atene nel 430 a.C., testimoniando come scattasse subito una caccia all’untore, alla ricerca dei presunti colpevoli venuti da fuori a diffondere il morbo.
A quanto si dice, comparve per la prima volta in Etiopia, al di là dell’Egitto, calò poi nell’Egitto e in Libia e si diffuse in quasi tutti i domini del re. Su Atene si abbatté fulmineo, attaccando per primi gli abitanti del Pireo. Cosicché si mormorava che ne sarebbero stati colpevoli i Peloponnesiaci con l’inquinare le cisterne d’acqua piovana mediante veleno”.
Tucidide, “La guerra del Peloponneso”, II, 48
Si arriva al medioevo. Giovanni Boccaccio usa la peste nera del 1348 a Firenze come cornice per il suo Decameron: le dieci persone protagoniste lasciano la città per trovare scampo alla terribile epidemia e passano il tempo raccontandosi le novelle che costituiscono l’ossatura dell’opera. Nelle prime pagine, la descrizione del morbo a Firenze, con i consueti episodi di disumanità: ognuno pensa per sé e non contano neppure i legami familiari.
E lasciamo stare che l’un cittadino l’altro schifasse e quasi niun vicino avesse dell’altro cura ed i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano, era con sí fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava ed il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito, e che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la caritá degli amici, e di questi fûr pochi, o l’avarizia de’ serventi li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quegli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno, ed i piú, di tali servigi non usati, li quali quasi di niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl’infermi addomandate o di riguardare quando morieno; e servendo in tal servigio, sé molte volte col guadagno perdeano.
Boccaccio, “Decameron”, Giornata prima
Facendo un salto alla letteratura dell’Ottocento, si arriva alla celeberrima descrizione di Manzoni nei Promessi Sposi (poi più ampiamente ripresa nella “Storia della Colonna Infame”) della peste a Milano del 1630. Una descrizione quanto mai attuale, con, fra l’altro, la paura dello straniero, in quel caso i francesi, che ci riporta alle situazioni che stiamo vedendo in questi giorni.
L’altro caso (e seguì il giorno dopo) fu ugualmente strano, ma non ugualmente funesto. Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico, venuti per veder l’Italia, per istudiarvi le antichità, e per cercarvi occasion di guadagno, s’erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavano lì guardando attentamente. Uno che passava, li vide e si ferma; gli accenna a un altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener d’occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel ch’era peggio, di francesi. Come per accertarsi ch’era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono circondati, afferrati, malmenati,s pinti a furia di percosse, alle carceri. Per buona sorte, il palazzo di giustizia, è poco lontano dal duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon trovati innocenti, e rilasciati.
Alessandro Manzoni, “I Promessi Sposi”, capitolo XXXII
Venendo al Novecento, non si può non citare “La peste di Albert Camus (1947) in cui la descrizione della città algerina di Orano, che viene chiusa e isolata per limitare la diffusione del contagio, ricorda da vicino le cronache e le immagini che arrivano in questi giorni da Wuhan e dalle altre città cinesi isolate per il coronavirus.
Anche la piccola soddisfazione di scrivere cifu negata. D’altronde, la città non era più collegata col resto del paese per mezzo delle comunicazioni abituali ordinarie e, inoltre, un nuovo decreto vietò lo scambio di ogni corrispondenza, per evitare che le lettere potessero diventare veicoli del contagio.
(…)
Ma se era un esilio, nella maggioranza dei casi era un esilio in patria. E quantunque il narratore non abbia conosciuto che l’esilio di tutti, non deve dimenticare quelli, come il giornalista Rambert o altri, per cui, invece, le pene della separazione si aggravarono per il fatto che, forestieri sorpresi dalla peste e trattenuti in città, si trovavano lontani sia alla persona che non potevano raggiungere sia dal paese loro.
(…)
Mentre i nostri concittadini cercavano di adattarsi al subitaneo esilio, la peste metteva guardie alle porte e sviava i bastimenti che facevano rotta verso Orano. Dopo la chiusura, non un veicolo era entrato in città; da quel giorno in poi, si ebbe l’impressione che le automobili si mettessero a girare in tondo. Anche il porto offriva un aspetto singolarea chi lo guardasse dall’alto dei viali; la consueta animazione, che ne faceva uno dei primi porti della costa, si era spenta all’improvviso; vi si vedevano ancora poche navi tenute in quarantena. Ma sulle banchine le grandi gru in disarmo, i vagoncini rovesciati sul fianco, i mucchi solitari di casse o di sacchi testimoniavano che persino il commercio era morto di peste.
(…)
Orano assunse un aspetto singolare. Il numero dei pedoni diventò più considerevole, mentre nelle ore vuote, molte persone, ridotte all’inerzia dalla chiusura dei negozi e di certi uffici, riempivano le strade e i caffè. Per il momento, non erano ancora licenziati, ma in vacanza. Orano dava allora, verso le tre del pomeriggio, ad esempio, e sotto un bel cielo, l’ingannevole impressione di una città in festa, di cui si fosse fermata la circolazione, si fossero chiusi i negozi per consentire lo svolgersi di una manifestazione pubblica e di cui gli abitanti avessero invaso le strade per partecipare ai festeggiamenti.
Albert Camus, “La Peste”, Bompiani editore
“L’amore ai tempi del colera” (1985) del premio Nobel Gabriel García Márquez vede la città colombiana di Cartagena de Indias, colpita dal morbo negli anni Venti, fare da sfondo alla vicenda sentimentale di Florentino Ariza e Fermina Daza. Fra i riti scaramantici delle autorità e il rigore sanitario del dottor Juvenal Urbino.
Da quando fu proclamato il bando del colera, nella fortezza della guarnigione locale si sparò un colpo di cannone ogni quarto d’ora, di giorno e di notte, d’accordo con la superstizione cittadina che la polvere purificasse l’ambiente. Il colera fu molto più feroce con la popolazione nera, che era la più numerosa e la più povera, ma in realtà non fece considerazione di colore né di lignaggio. Cessò improvvisamente come era iniziato, e non si conobbe mai la quantità dei suoi danni, non perché fosse impossibile stabilirla, ma perché una delle nostre virtù più usuali era il pudore delle proprie disgrazie
Gabriel García Márquez “L’amore ai tempi del colera”, Mondadori
Un altro premio Nobel, il portoghese José Saramago, immagina infine nel suo romanzo distopico “Cecità” (1995) una città colpita da un morbo che rende improvvisamente ciechi. Anche qui, una quarantena, con l’isolamento dei contagiati in un manicomio abbandonato e il cibo che viene portato loro in grandi casse lasciate all’ingresso da soldati (non ricorda un po’ la Cecchignola di questi giorni?) che poi però se la danno a gambe prima che arrivino i malati.
La commissione agì con rapidità ed efficacia. Prima di sera erano già stati radunati tutti i ciechi di cui si aveva notizia, e anche un certo numero di presunti contagiati, quanto meno quelli che era stato possibile identificare e localizzare con una rapida operazione di rastrellamento effettuata soprattutto negli ambienti familiari e professionali dei colpiti dalla perdita della vista. I primi a essere trasportati nel manicomio sgombrato furono il medico e sua moglie. C’erano soldati di guardia. Il portone fu aperto giusto per farli passare, e subito richiuso.
José Saramago, “Cecità”, Einaudi